Alcuni desideri hanno l'uncino. Si aggrappano alla meta e tirano, tirano, fino a quando non sono certi di avercela fatta. Succede, a volte, che l'uncino si ancori alle figure sbagliate, troppo pesanti, sproporzionate, e si spezzi. Si finisce a terra. Allora ci si rialza e si ricomincia da capo. L'importante è continuare a desiderare, con intensità, moderazione e sincerità.
Cristina Donà
ed è forte quello che ho dentro distante dalla mediocrità, ho inseguito il rumore assordante per non sentirla...
mercoledì, dicembre 31, 2008
venerdì, dicembre 19, 2008
citazione numero 2
21.2.1930
All’improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa della mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono. Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, che con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un’ebbrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l’attore, ma i suoi gesti. Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l’aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino.
Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede. E’ cosi difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l’anima è un’entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo.
Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. Si, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all’improvviso si trova in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
E’ stato un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi.
E’ stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché non so perché, penso che il senso è dormire.
Fernando Pessoa
LI, 100 (199)
All’improvviso, come se un destino chirurgo mi avesse operato per una cecità antica ottenendo un grande successo immediato, alzo la testa della mia vita anonima verso la chiara conoscenza del come esisto. E vedo che tutto quanto ho fatto, tutto quanto ho pensato, tutto quanto sono stato, è una specie di inganno e di follia. Mi stupisco di quello che non sono riuscito a vedere. Mi sorprendo di quanto sono stato accorgendomi che in fin dei conti non sono. Guardo, come in una distesa al sole che rompe le nuvole, la mia vita passata; e mi accorgo, che con uno stupore metafisico, di come tutti i miei gesti più sicuri, le mie idee più chiare e i miei propositi più logici non siano stati altro che un’ebbrezza congenita, una pazzia naturale, una grande ignoranza. Non ho neppure recitato. Sono stato recitato. Non sono stato l’attore, ma i suoi gesti. Tutto quanto ho fatto, ho pensato e sono stato, è una somma di subordinazioni, sia a un ente falso che ho creduto mio perché ho agito partendo da lui, sia di un peso di circostanze che ho scambiato per l’aria che respiravo. In questo momento del vedere, sono un solitario immediato che si riconosce esiliato nel luogo in cui si è sempre creduto cittadino.
Nel più intimo di ciò che ho pensato non sono stato io.
Mi sopravviene allora un terrore sarcastico della vita, uno sconforto che va oltre i limiti della mia individualità cosciente. So che sono stato errore e traviamento, che non ho mai vissuto, che sono esistito soltanto perché ho riempito tempo con coscienza e pensiero. E la mia sensazione di me è quella di chi si sveglia dopo un sonno pieno di sogni reali, o quella di chi è liberato, grazie a un terremoto, dalla poca luce del carcere a cui si era abituato.
Mi pesa, mi pesa veramente, come una condanna a conoscere, questa nozione improvvisa della mia vera individualità, di quella che ha sempre viaggiato in modo sonnolento fra ciò che sente e ciò che vede. E’ cosi difficile descrivere ciò che si sente quando si sente che si esiste veramente, e che l’anima è un’entità reale, che non so quali sono le parole umane con cui si possa definirlo.
Non so se ho la febbre, come sento, se ho smesso di avere la febbre di essere dormitore della vita. Si, lo ripeto, sono come un viaggiatore che all’improvviso si trova in una città estranea senza sapere come vi è arrivato; e mi vengono in mente i casi di coloro che perdono la memoria, e sono altri per molto tempo. Sono stato un altro per molto tempo (dalla nascita e dalla coscienza), e mi sveglio ora in mezzo al ponte, affacciato sul fiume, sapendo che esisto più stabilmente di colui che sono stato finora. Ma la città mi è sconosciuta, le strade nuove, e la malattia senza rimedio. Aspetto dunque affacciato al ponte, che passi la verità, e che io mi ristabilisca nullo e fittizio, intelligente e naturale.
E’ stato un attimo, ed è già passato. Vedo ormai i mobili che mi circondano, il disegno della vecchia carta alle pareti, il sole attraverso i vetri polverosi. Ho visto la verità per un attimo. Sono stato per un attimo, coscientemente, ciò che i grandi uomini sono verso la vita. Ricordo i loro atti e le loro parole, e non so se non sono stati anche loro tentati vittoriosamente dal Demone della Realtà. Non sapere di sé vuol dire vivere. Sapere poco di sé vuol dire pensare. Sapere di sé, all’improvviso, come in questo momento lustrale, vuol dire avere subitamente la nozione della monade intima, della parola magica dell’anima. Ma una luce improvvisa brucia tutto, consuma tutto. Ci lascia nudi perfino di noi stessi.
E’ stato solo un attimo e mi sono visto. Poi, non so più dire ciò che sono stato. E, alla fine, ho sonno, perché non so perché, penso che il senso è dormire.
Fernando Pessoa
LI, 100 (199)
giovedì, dicembre 18, 2008
martedì, dicembre 16, 2008
citazione numero 1
7.4.1933
Sono passato come uno straniero in mezzo a loro, ma nessuno ha capito che lo ero.
Sono vissuto come una spia in mezzo a loro e nessuno, nemmeno io, ho sospettato che io lo fossi. Tutti mi credevano un parente: nessuno sapeva che ero stato scambiato alla nascita. Cosi sono stato uguale agli altri senza somigliare a loro, fratello di tutti senza appartenere alla famiglia. Venivo da terre prodigiose, da paesaggi più belli della vita, ma non ho mai parlato di quelle terre se non a me stesso. E di quei paesaggi visti in sogno non ho mai dato notizia a nessuno. I miei passi erano uguali ai passi altrui, sugli impiantiti o sui lastricati, ma il mio cuore era lontano, anche se batteva vicino, signore falso di un corpo esiliato ed estraneo. Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera, perché nessuno sapeva che a questo mondo esistono i mascherati. Nessuno ha supposto che a mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. Nelle loro case ho trovato riparo, le loro mani hanno stretto la mia, mi hanno visto passare per la strada come se fossi io; ma colui che io sono non è mai stato in quelle stanze, colui che io vivo non ha mani che altri possano stringere, colui che conosco quale io non ha strade da percorrere, se non tutte le strade, non ha qualcuno che in esse lo veda, a meno che egli stesso non sia tutti gli altri. Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; ma per altri essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.
Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che pensiamo o sentiamo è sempre una traduzione, che ciò che vogliamo e ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?
Ma la maschera che finora ho fissato con inerzia, quella maschera che parlava all’angolo della strada con un uomo senza maschera in questa notte di fine carnevale, ha finalmente teso la mano e ha salutato ridendo. L’uomo naturale ha girato l’angolo e ha imboccato la traversa di sinistra. La maschera (un domino senz’allegria) è andata nell’altra direzione, allontanandosi fra ombre e luci fortuite, in un commiato definitivo ed estraneo a ciò che io stavo pensando. Solo allora mi sono accorto che oltre ai lampioni c’era qualcos’altro nella strada: un chiarore di luna che si andava offuscando, vago, occulto, muto, pieno di nulla come la vita….
Fernando Pessoa
LI, 132 (198)
Sono passato come uno straniero in mezzo a loro, ma nessuno ha capito che lo ero.
Sono vissuto come una spia in mezzo a loro e nessuno, nemmeno io, ho sospettato che io lo fossi. Tutti mi credevano un parente: nessuno sapeva che ero stato scambiato alla nascita. Cosi sono stato uguale agli altri senza somigliare a loro, fratello di tutti senza appartenere alla famiglia. Venivo da terre prodigiose, da paesaggi più belli della vita, ma non ho mai parlato di quelle terre se non a me stesso. E di quei paesaggi visti in sogno non ho mai dato notizia a nessuno. I miei passi erano uguali ai passi altrui, sugli impiantiti o sui lastricati, ma il mio cuore era lontano, anche se batteva vicino, signore falso di un corpo esiliato ed estraneo. Nessuno mi ha riconosciuto sotto la maschera dell’identità con gli altri, né ha mai saputo che ero maschera, perché nessuno sapeva che a questo mondo esistono i mascherati. Nessuno ha supposto che a mio lato ci fosse sempre un altro che in fondo ero io. Mi hanno sempre creduto identico a me stesso. Nelle loro case ho trovato riparo, le loro mani hanno stretto la mia, mi hanno visto passare per la strada come se fossi io; ma colui che io sono non è mai stato in quelle stanze, colui che io vivo non ha mani che altri possano stringere, colui che conosco quale io non ha strade da percorrere, se non tutte le strade, non ha qualcuno che in esse lo veda, a meno che egli stesso non sia tutti gli altri. Tutti noi viviamo distanti e anonimi; dissimulati, soffriamo da sconosciuti. Ad alcuni, però, questa distanza fra loro stessi e un altro essere non si rivela mai; per altri è talvolta illuminata, di orrore o di pena, da un lampo senza limiti; ma per altri essa non è altro che la dolorosa costanza e quotidianità della vita.
Sapere esattamente che chi siamo non ci riguarda, che ciò che pensiamo o sentiamo è sempre una traduzione, che ciò che vogliamo e ciò che non vorremmo, né forse qualcuno ha voluto; sapere tutto questo a ogni minuto, sentire tutto questo in ogni sentimento, non significherà essere straniero nella propria anima, esiliato nelle proprie sensazioni?
Ma la maschera che finora ho fissato con inerzia, quella maschera che parlava all’angolo della strada con un uomo senza maschera in questa notte di fine carnevale, ha finalmente teso la mano e ha salutato ridendo. L’uomo naturale ha girato l’angolo e ha imboccato la traversa di sinistra. La maschera (un domino senz’allegria) è andata nell’altra direzione, allontanandosi fra ombre e luci fortuite, in un commiato definitivo ed estraneo a ciò che io stavo pensando. Solo allora mi sono accorto che oltre ai lampioni c’era qualcos’altro nella strada: un chiarore di luna che si andava offuscando, vago, occulto, muto, pieno di nulla come la vita….
Fernando Pessoa
LI, 132 (198)
venerdì, dicembre 12, 2008
venerdì, dicembre 05, 2008
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